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APA & IPL

27 Agosto 2021 - il Blog, Ricette
APA & IPL

Lo ammetto: mi sono accostato all’homebrewing grazie alle birre luppolate. L’idea (malsana) di avere tante ma tante tante IPA in casa mi ha spinto ad acquistare le mie prime attrezzature per fare birra da me, perché stolto ed ingenuo vedevo solo pochi semplici passi da fare e la convenienza economica.

Non a caso, la mia seconda birra All Grain è stata proprio una IPA, da kit, che a distanza di anni ricordo ancora come non in linea con le mie aspettative e sicuramente migliorabile, ma ci ho messo poco per capire che l’attrezzatura in mio possesso di allora, ovvero i classici bidoni che escono coi kit, asta da travaso etc, non era idonea per realizzare birre luppolate in casa. O meglio: l’attrezzatura in sé è idonea ma non sufficiente… e dovevo maturare ancora tanta esperienza e prendere altra attrezzatura per ottenere qualcosa di sensato. Tutto questo perché fare birre luppolate in casa è difficile, non impossibile. Ma decisamente difficile.

Cosa voglio dire? Sto forse dicendo che per fare birra luppolata in casa, l’attrezzatura che si utilizza fa la differenza? Sì, in effetti è così. Del resto a Napoli c’è un famoso detto che recita più o meno Song’ ‘e fierr ca’ fann ‘o mast, ovvero che a fare la differenza è proprio l’attrezzatura usata. In quasi tutti i campi, anche quello brassicolo. Chi si ostina a dire il contrario spesso è ignorante o in malafede. E a volte tutte e le due cose.

Ma facciamo un passo indietro

È passato un annetto con diverse cotte da quando ho introdotto nella mia officina l’uso fustini e bombole di co2 per l’imbottigliamento, archiviando definitivamente i bidoni inox e di plastica, sifoni e l’asta da travaso e tutta l’altra attrezzatura che citavo prima. I risultati sono arrivati sin da subito: prima mi usciva una birra “buona” su cinque. Adesso mi riesce una birra cattiva su cinque (diciamo). La qualità delle birre prodotte è mediamente cresciuta in maniera esponenziale. Non parlo di miglioramento di shelf life perché i pochi litri prodotti mi permette di finire di bere sempre la birra prima che decada inesorabilmente.

Come dicevo, prima dell’avvento della co2, mediamente, mi riusciva bene, cioè esente da particolari difetti, una birra su cinque. Adesso è l’esatto opposto. mediamente anche la birra meno riuscita è comunque più buona dello standard a cui ero abituato prima.

In effetti, come può aver inciso così tanto, almeno nel mio caso, il passaggio alla contropressione? Cosa è cambiato rispetto a prima? Può l’attrezzatura adottata aver fatto la differenza rispetto a prima? Sì, in effetti è così.

Sinceramente ho anche pensato di aver migliorato la capacità di scrivere le ricette, e messo maggior consapevolezza nella gestione del ciclo produttivo.

Ma è pur vero che nel giro di pochi mesi, ho cambiato

Con questo setup ho effettuato diverse cotte, spaziando tra stili con caratteristiche diverse, e bene o male è andato sempre tutto bene. Come dicevo, in quest’anno ho fatto anche birre di merda (minchia se ero uno di quelli sempre bravi, mica stavo qui a scrivere…) ma nel quadro generale non alterano la media più di tanto.

Con questa configurazione, che ovviamente può subire modifiche nel tempo, ho reso ripetibili molte fasi del ciclo produttivo, ma quella su cui credo davvero di avere migliorato, nel senso di stabilizzato, è proprio la fase di imbottigliamento.

Grazie alla contropressione, imbottigliare è diventata un’operazione meccanica che lascia pochi margini di errore: con la contropressione, imbottigliare 10, 15 o 150 litri l’approccio non cambia ed è sempre lo stesso, mentre con l’asta da imbottigliamento e con il sifone, almeno per me, non lo era. Troppi fattori incidevano nel processo: il fermentatore scelto, la scelta o meno di effettuare un travaso pre imbottigliamento, il tipo di birra, etc etc… e la distrazione da fatica o altro era sempre dietro l’angolo, e qualcosa andava sempre storto; soprattutto nel fare birre luppolate, dovevo essere molto concentrato e non sbagliare nessun passaggio, e soprattutto ad essere rapido, per introdurre meno ossigeno possibile, acerrimo nemico della birra. Invece, con fustini, Ardpressure / asta cinese e co2 è tutto molto più gestibile, semplice e ripetibile.

Questo comporta maggiore attrezzatura, indubbio, ma i vantaggi sono innegabili, tra cui la serenità… e solo per questo non tornerei mai indietro!

Chi afferma che l’imbottigliamento in contropressione sia solo sbattimento in più rispetto al metodo “classico”, per come la vedo io, o è ignorante o in malafede. E a volte tutte e le due cose.

Per cui, mosso dallo spirito primordiale, ho deciso di riprovare, per la mia gioia, a mettere di nuovo in cantiere delle birre luppolate.

Evviva!!!

APA o IPL?

Scegliere quale birra luppolata mettere in campo ha subito palesato un dilemma biforcuto: meglio fare una American Pale Ale o fare una India Pale Lager?

La risposta è arrivata pressocché unanime: perché non tutte e due? E che diamine… si vive una volta sola!

Ma vediamo un po’ di cosa si tratta.

Cosa sono le American Pale Ale?

La domanda è un po’ fuorviante. Piuttosto, bisognerebbe interrogarci su cosa sono diventate adesso le American Pale Ale.

Forse è una mia impressione, ma ultimamente di APA in giro se ne vedono poche, snobbate a favore delle più modaiole NEIPA che ormai hanno letteralmente saturato il mercato, le papille gustative e i maroni dello scrivente me medesimo di prima persona che sono io.

Diventa difficile, quindi, trovare delle birre snelle, brillanti, chiare e carbonate un pelino in più, con aromi resinosi e tropicali che tanto andavano di moda fino a quattro cinque anni fa. E anche tra homebrewer, la scelta vira spesso verso il juicy. Ovviamente non c’è niente di male a fare e proporre le NEIPA; e le APA di sicuro non spariranno dai nostri banconi tanto facilmente, ma anche quest’ultime birre hanno inevitabilmente risentito dell’influenza di altri stili più “modaioli”, concedetemi la banalizzazione.

Su quali aspetti, quindi, bisogna puntare ora nella realizzazione di una American Pale Ale? La definizione che è tracciata nel BJCP è tutt’ora valida? Ovviamente ho provato a dare una risposta a modo mio nella scrittura della ricetta. Ma di questo ne parlo tra poco.

Cosa sono le India Pale Lager?

Ma sopratutto… esistono le India Pale Lager? NO, non esistono. Sempre se prendiamo come riferimento il BJCP.

Madonna santissma che due coglioni sto BJCP… lo so. Ma io preferisco basarmi sul BJCP quando mi aproccio alla birrificazione, anche se poi solitamente prendo altre vie. Per cui vado letteralmente in sollucchero con le India Pale Lager, che di fatto non sono codificate nel BJCP. Probabilmente nelle prossime versioni verranno aggiunte le New Zealand Pilsner, che in qualche modo sono già codificate come stile provisional con un profilo ben definito che in qualche modo più essere assimilato alle IPL. Ma non basta. Come se non bastasse sono anni che diverse birre commerciali in etichetta riportano come stile India Pale Lager. Stiamo parlando di uno stile di fatto, anche se non acora ufficializzato dal BJCP, che come è noto, non brilla certo di velocità negli adeguamenti.

Concedetemi anche qui una banalizzazione: le India Pale Lager altro non sono che delle IPA con lievito da bassa fermentazione: grist noto, luppolatura pure, ma gestione della fermentazione con saccaromyces pastorianus. Quindi tenore alcolico contenuto, colore che va dall’ambrato chiaro al ramato, buona limpidezza e tenuta della schiuma, una buona base maltata grazie all’uso di malti speciali, aromi di luppolo ben in evidenza grazie alla luppolaura a freddo e esteri molto bassi o nulli, e assenza di diacetile.

E, azzardo, assaggiando alla cieca una IPL o una IPA difficilmente riusciremo a cogliere in maniera netta e decisa quella a bassa o alta fermentazione.

Ovviamente non è tutto, in mezzo ci stanno mille sfumature di grigio: si potrebbe parlare per ore di Italian Pils, Hoppy Lager; delle loro peculiarità e differenza… spostiamo il dibattito altrove, in un contesto più solenne. Questo è solo un blog di homebrewing.

IPL e APA: le ricette

A fine stagione ho trovato in dispensa confezioni diverse di luppoli: circa otto etti che per me che faccio pochi litri di birra vuol dire davvero tanto luppolo, materia prima che merita di essere consumata prima che interceda la naturale curva discendente di degrado.

…e così ho fatto due birre stra luppolate. Prima la bassa fermentazione, poi l’alta.

Diamo un’occhiata alle due ricette così come le ho pensate e scritte, direttamente con un confronto.

Forse la prima cosa che salta subito all’occhio è la lunga lista di luppoli usati per la IPL, birra che stranamente non ha un valore di IBU stimato più alto rispetto alla APA, che invece risulta essere decisamente fuori scala. Ma ci sono anche delle altre piccole similitudini e differenze.

Dot Net 2021 – India Pale Lager

La mia IPL

L’idea alla base di questa birra è, metaforicamente, un derby tra America e Germania giocato in territorio neutro, ovvero l’Italia. Più o meno gli elementi ci son tutti.

Per quanto riguarda il grist ho usato del malto pilsner italiano, preso su Mr. Malt che ho provato già in una paio di cotte. Ho notato delle sfumature più tendenti al biscotto che al miele, per cui mi son fatto l’idea che questo malto sia poco pilsner e molto pale; avevo in mente di usare del crystal, ma poi ho sostituito con una piccola dose di caramunich 1 per sostenere la base maltata.

I luppoli usati sono quattro: di origine americana ho usato il classico Cascade (immancabile nella mia dispensa) e il Chinook (e che ve lo dico a fare…). Per il luppoli di area germanica ho usato il Mandarina Bavaria (che amo molto) e il Tettnang perché ho letto in più punti Agostino Arioli affermare di usare questo luppolo per la sua TipoPils, sostenendo che in dosi massicce vira verso sentori agrumati.

Non fotografare quel fustino aperto!

Ho effettuato anche un doppio dry hopping, giusto per complicare le cose, in fase di fermentazione già avviata, in modo tale da ridurre al minimo la presenza di ossigeno nel mosto.

La fermentazione è stata condotta col fidato W34/70 della Fermentis (con l’accento sulla i) con il solito metodo del Fast Lager. A fine fermentazione ho lasciato la birra a 2°C per una decina di giorni per favorire il deposito di tutto il luppolo usato e ho poi proceduto con l’imbottigliamento in contropressione, con l’aiutino del F2 della Fermentis (sempre con l’accento sulla i).

Dopo nemmeno 2 settimane dallo stoccaggio ho cominciato a bere la birra.

Adesso che scrivo il post la birra è bella e finita da settimane, e fare una descrizione oggettiva della birra è un po’ difficile. Avevo in qualche modo delle aspettative di quello che mi sarei poi trovato nel bicchiere a cose fatte, come per esempio un eccessiva astringenza e una nota vegetale, per non parlare poi della fastidiosa velatura di tutti quei polifenoli a spasso per la bottiglia. E invece non è andata così…

Nel bicchiere la birra risultava limpida, di un bel colore arancio carico tendente al ramato, con una discreta schiuma persistente. Al naso tutto risultava abbastanza armonico: sentori decisi di resinoso e tropicale coesistevano in maniera coerente senza troppe manie di protagonismo. Inutile dire che è molto difficile in queste circostanze individuare in maniera netta il profilo aromatico dato dal singolo luppolo. Per quegli esercizi è meglio buttarsi sulle SMaSH.

Fin qui tutto bene. Smontate le paranoie su aspetto odore, il mio dubbio principale rimaneva il gusto. Con sommo stupore ho notato che la birra non aveva note vegetali e anche l’astringenza era molto contenuta, con note davvero basse. Fare dry hopping durante la fase tumultuosa migliora tantissimo la resa del luppolo. Certo… bisogna usarne di più… ma non abbiamo scelto di fare gli homebrewer per fare economia di materie prime. L’unica nota dolente è una nota di diacetile ben presente nelle prime bottiglie, quelle bevute molto giovani, mentre nelle ultime il difetto si era un po’ riassorbito. Escludo categoricamente l’ossidazione come responsabile. Stiamo parlando di birre che ho consumato nel giro di un mese. Non due anni. Probabilmente non ho completato correttamente la sosta diacetile, e la prossima volta allungherò i tempi.

Come appena detto, la birra è stata consumata nel giro di poche settimane. Giusto per placare la voglia ossessiva di luppolo.

Tutto sommato son rimasto molto soddisfatto. Sicuramente una birra da rifare o da riproporre.

Briù Plus Plus 2021 – American Pale Ale

un po’ di luppoli

Agosto è il mese più freddo dell’anno, recitano da circa 20 anni i Perturbazione nel mio walkman a cassette.

In parte è vero, altrimenti non troverei la giusta motivazione per andare in cantina a brassare una birra con tutto questo caldo. Complice le ore serali in cui il caldo va leggermente abbassandosi, ho pensato bene di concedermi quella che molto probabilmente sarà l’ultima cotta del 2021, almeno per quanto riguarda l’attuale cantina di casa che ogni tanto adibisco ad Officina Briù. Ma di questo ne parlerò in un secondo momento.

Complice sempre l’esubero di luppoli di area americana ho deciso di provare a fare una American Pale Ale, e ora che ci penso bene credo che sia la prima volta in anni di onorata carriera da homebrewer che ne faccio una.

L’obiettivo principale di questa birra è quella di essere iscritta ad una tappa del campionato MoBI, quella di Ferrara, per essere presentata giovane ed in forma, nella speranza di competere con le altre iscritte prodotte da homebrewer molto più bravi di me. Come già detto in mille circostanze, io non sono un homebrewer competitivo, un po’ perché non è nella mia natura personale, un po’ perché è difficile competere con gente che ne sa a pacchi più di te, e sopratutto perché quelle volte che ho partecipato il mio nome sta sempre nella parte bassa della classifica.

In ogni caso, mi diverte partecipare ai concorsi, soprattutto perché vanno presi per quello che sono: concorsi da homebrewer e basta. Può andare bene o può andare male, chissene.

Come dicevo l’idea che sta alla base delle realizzazione di questa birra è quella di presentarla ad una tappa del concorso MoBI, dove viene preso in considerazione (o meglio, interpretato all’italiana) il BJCP per la valutazione delle birre iscritte, per cui ho cercato di seguire alla lettera, o quasi, le indicazioni riportate per la stesura della ricetta. Mi sono aiutato anche con la sezione del capitolo 15 del libro Fare la birra in casa di Antonelli Ruggiero (non quelli di Per un ora d’amore) con l’obiettivo di creare una birra nei range alti dello stile.

In fase di cotta, mi sono accorto di non avere sufficiente malto pilsner ma un po’ pale italiano (lo stesso usato per la IPL di prima) e l’ho tagliato con del pilsner di scorta. Come si evince dal paragrafo del libro sopracitato, l’aggiunta di fiocchi è inutile, ma ho preferito mettere lo stesso un 10% per ruffianeria.

Per quanto riguarda la parte luppolata ho esagerato un po’ dando mano alle scorte che avevo: ho usato il Sabro e il Zappa.

Il luppolo Sabro è un luppolo molto noto, dal profilo aromatico ben distinguibile. Insieme al Citra si contendono il terreno delle circa millemila luppolate in giro per il mondo. Ruffiano anche il luppolo.

Il luppolo Zappa è un luppolo nuovo. Ne avevo sentito palrare da Frank durante una registrazione di Mash Out! Podcast e ho deciso di provarlo, anche solo per il nome. Tengo una minchia tanta, Camarillo Brillo, Be in my video… ci siamo capiti.

Per il lievito, mi sono affidato per la prima volta al BRY-97 della Lallemand, perché ho sempre sentito parlare di questo lievito come valida alternativa all’US-05 che è diventato un po’ noioso, e un po’ per gli aspetti legati alla biotrasformazione del luppolo durante il dry hopping…

io e il mondo

Ho effettuato una singola, ma generosa, gettata di luppolo in dry hopping più o meno al terzo giorno di fermentazione tumultusa in corso. Con poche mosse da ninja ho sfiatato il fustino, aperto la boccola, gettato il luppolo, chiuso la boccola, bestemmiato qualche santo, saturato di co2 e andato in pace.

Nei giorni successivi ho smosso un po’ il fustino per circa un minuto, per rimettere in circolo il lievito. L’operazione in sé ha poco senso, ma ammetto che in parte mi diverte sballottolare il fustino. Ha un che di antistress…

Il lievito ha lavorato molto bene, assolutamente in linea con le aspettative: partito in breve a 18°C e ho alzato gradualmente a 21°c dopo la tumultuosa. In tutto questo tempo il luppolo è stato a contatto col mosto, come mia ormai consuetudine.

Accertatomi della fine della fermentazione ho impostato la cella di fermentazione a 2°C per il cold crash e così è rimasto per circa 4 giorni. Dopo di ché, dovendo partire per le sante vacanze, ho preferito imbottigliare, con il solito aiutino del F2 della Fermentis (sempre con l’accento sulla i). Avevo solo il dubbio che i quattro giorni di cold crash non fossero stati sufficienti per chiarificare la birra, e in caso avevo in mente già il piano B: iscrivere la birra come NEIPA. Ruffiano che non sono altro…

Dopo una settimana, la birra aveva già rifermentato e mi sono concesso un assaggio prima di spostare tutte le bottiglie nel piccolo frigorifero adibito a camera di maturazione.

prove tecniche di controluce

L’aspetto è di un dorato brillante limpido (la foto non rende) con schiuma bianca a bolle fine di media persistenza che lasciano nel bicchiere dei graziosi merletti (sicuramente merito dei fiocchi…) ma quello che mi ha colpito maggiornmente è l’aroma intenso di luppolo che si sprigiona durante la mescita: davvero inebriante. Quasi quasi mi dispiace sacrificare tre bottiglie da mezzo litro per il concorso…

Poi facciamo i conti con le schede che arriveranno…

Conclusioni

Si conclude quindi questo mega viaggio nel mondo delle birre luppolate che mi ha fatto compagnia questa estate. E tutto sommato, mi ritengo soddisfatto. Ho capito che per quanto riguarda le birre luppolate ho fatto dei notevoli passi avanti rispetto a prima dell’avvento della contropressione.

Per ritornare all’inizio del post: avrei ottenuto lo stesso risultato coi bidoni di plastica e l’asta da imbottigliamento? Secondo me molto probabilmente no.

Sia chiaro, non sono quel tipo di homebrewer che difende a spada tratta la propria spesa: prima di adottare una tecnica o uno strumento ci penso bene cercando di ponderare tutti gli aspetti e non solo quello economico, e sopratutto mi baso sulle diverse esperienze di altri homebrewer pionieri. C’è in questo campo molta gente che ha fatto da Virgilio e ha poi messo a disposizione l’esperienza acquisita, per cui è stato facile valutare l’attrezzatura e relativi vantaggi e svantaggi. In questo caso, i molti vantaggi pesano molto di più dei pochi svantaggi, e per quanto riguarda le spese sostenute, a me ha aiutato molto dilazionare nel tempo l’acquisto dell’attrezzatura necessaria.

Personalmente mi ha aiutato molto rivendere l’attrezzatura che non sarebbe più stata necessaria, ottimo metodo sia per liberare spazio che per racimolare soldini da re-investire nell’hobby. Ho ancora dei fermentatori inox da 30 litri, per cui se qualcuno fosse interessato… fatevi sentire.

Una cosa è certa: non tornerei indietro per nulla al mondo.

Come ho accennato anche nel post, al momento sono fermo con le produzioni casalinghe perché a breve traslocherò e avere, tra le altre cose, anche bottiglie e fustini pieni da gestire è sicuramente una complicazione inutile ed in più.

Non so quando riprenderò le attività produttive, probabilmente in pieno inverno dopo un periodo di assestamento. Se si faranno sentire delle crisi di astinenza da produzione, proverò ad andare in trasferta a casa di colleghi casalingo brassicoli per portare un po’ del mio delirio nei loro microbirrifici. Ma anche a questo ci penseremo poi…

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