Sperando di aver risolto definitivamente i problemi di infezione di cui ho già abbondantemente parlato nei post precedenti, domenica 21 maggio ho brassato una nuova birra, che credo, si inserirà prepotentemente nella lista delle produzioni dell’Officina Briù, e che spero di presertare presto.
Si tratta, prendendo spunto dal BJCP, di una Belgian Pale Ale. Non mi sono mai cimentato con la produzione di birre di ispirazione belga, anche perché non sono le mie birre preferite, ma questo stile sa essere molto affascinanti e d’effetto.
Ho passato diversi mesi nella stesura della ricetta sulla carta, a volte complicando il grist, a volte sbagliando le luppolature, a volte scrivendo una ricetta, immaginare il sapore in mente dopodiché cancellare tutto.
Alla fine ha vinto, come sempre, l’approccio minimale: grist semplice, due gettate per la luppolatura e l’ormai collaudato doppio step 52 / 68 gradi.
Anche questa cotta è stata gestita In BIAP, brew in a pipe, con la bulldog brewer, pentola di cui continuo ad essere estremamente soddisfatto per via della semplicità di gestione: accendi, riempi, controlli, accendi la pompa… e via.
Com’è andata la cotta.
La cotta è andata tutto sommato bene e le perdite che ho avuto sono per motivi esterni alla tecnica di birrificazione (vedi poi), con una stima approssimativa sull’efficienza di circa il 70%. Nonostante avessi previsto 60 minuti di saccarificazione a 68°, dopo 40 minuti il test dello iodio era già positivo, e siccome una mezz’oretta di lavoro in meno è sempre una grande cosa, sono passato direttamente allo sparge e poi alla bollitura. Nei tempi morti, ho ottimizzato le procedure di pulizia, asciugatura e sistemazione della gran parte dell’attrezzatura nelle loro scatole di conservazione. Ho iniziato a preparare la cantina circa alle 16:00 e alle 19:30 avevo concluso il raffreddamento del mosto e inoculo. il tempo di pulire le ultime attrezzature e risistemare il luogo del delitto e per le 20:00 ero a casa. Fare birra in casa è un hobby divertente e rilassante ma per certi aspetti è anche molto stancante e sembra di correre una maratona. Ma la soddisfazione è anche sudore.
Un po’ di dati sulla cotta.
Per l’ammostamento ho usato 20 litri, invece dei canonici 18. Nel tubo c’erano circa 5,5 chili di malti, ed effettivamente il mash forse un po’ troppo diluito. La saccarificazione, come dicevo, è avvenuta in meno di un’ora. La bollitura è stata vigorosa, e il raffreddamento ha portato un po’ più di tempo del solito, per via delle temperature miti. Ora ci sono circa 21 litri in fermentazione dentro la camera di fermentazione a 17° circa che già sbuffano allegramente.
Cos’è andato male in questa cotta.
Ecco un raro esempio di ostelinus birraio che si appresta ad estrarre il tubo.
Mi sono praticamente fatto la doccia di mosto, per una perdita, quantificabile in circa 2 litri. Ecco cosa succede a sollevare il tubo con i grani esausti affidandosi a quelle manigliette fragili e scivolose. Dopodiché per estrarre il tubo, ci sono andato un po’ più cauto, e ho sollevato tirando per i bordi.
Inoltre, non so per quale motivo ho avuto un altro simpatico inconveniente, la solar project non si voleva accendere. Niente, non ne voleva sapere. Alla fine, l’ho sostituita di corsa con la Topsflo che ha cominciato a pompare come se non ci fosse un domani.
Conclusioni.
Ho cercato di essere più maniacale possibile nella pulizia rispetto alle volte precedenti. Ho messo alcool puro sia nel gorgogliatore, che nel rubinetto del fermentatore. Ho evitato di poggiare direttamente il fermentatore su superfici come pavimenti o altre cose sporche ma solo su basi pulite. e soprattutto tutto ciò che è entrato a contatto col mosto ha fatto diversi minuti di bollitura e ho cercato il più possibile di ridurre il contatto con l’aria annullando praticamente i tempi di esposizione del mosto all’aria.
Insomma, spero di aver imparato la lezione.