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Un quasi vino d’orzo

20 Novembre 2020 - il Blog, Ricette
Un quasi vino d’orzo
vista panoramica sulla mia Offcina Briù.

Un English Barely Wine.
Per gli avventori precisini del blog, non si tratta di un refuso. Leggete con calma.

Da dove iniziamo?

Dopo essermi lasciato alle spalle la Bitterazza, l’ordinary bitter brassata il mese scorso, ecco che in una fredda sera novembrina, ho trovato il coraggio per dedicarmi alla grande sfida della nuova stagione brassicola 2020-21: la produzione di un Barley Wine. Un English Barley Wine, per l’esattezza.

L’idea di questa birra era nella mia mente già da un po’, almeno da gennaio di quest’anno. Ma ho sempre rimandato ad altri tempi per via della lunga serie di birre OG 1.042 che ha caratterizzato la mia produzione dell’anno scorso. E sopratutto perché, andando incontro alle temperature estive, ecco che la maturazione sarebbe andata inevitabilemente in malora. E adesso, in pieno autunno con l’inverno prossimo, credo di poter affermare di essere nel pieno di quei “altri tempi”.

Lo ammetto. Ho sempre un timore reverenziale verso certi stili di birra, soprattutto quelli connotati da un forte tenore alcolico: non so spiegare bene il perché: istintivamente la prima associazione mentale che faccio quando penso a birre strutturate e molto alcoliche è quella di un periodo storico remoto, antico arrivato a noi attraverso fumose testimonianze o ipotesi sulle origini e su evoluzione e sviluppo. Per l’English Barley Wine non è così: si sa benissimo quando nacque e perché. Siamo nell’inghilterra del XVIII secolo e le birre nazionali dal tenore alcolico alto non sono una novità; le Strong Ale sono già abbondantemente conosciute. Proprio in questo periodo nascono le birre che poi verranno nominate vino d’orzo, Barley Wine. Colore dalle tonalità cariche verso lo scuro, alta gradazione alcoolica, poca schiuma e carbonazione bassa quasi assente sono i tratti distintivi di queste birre, il cui scopo principe è quello di contrastare la gravissima onta della sempre più grande diffusione sul mercato inglese dei vini francesi, a discapito della birra, bevanda nazionale per eccellenza. Già il nome in sé è un forte richiamo commerciale per arrivare a più consumatori possibile: “Vino d’orzo” non solo di nome, ma anche di fatto: per rendere più complessa ed interessante la bevuta, è previsto un lungo invecchiamento in botte in maniera più simile possibile al vino. Solo successivamente, nel secolo scorso, sono stati definiti dei canoni commerciali ben precisi che ci hanno portato ai nostri giorni ad avere un’idea molto chiara di cosa sia un English Barley Wine.

Quindi ricapitolando…

I tratti distintivi di un English Barley Wine sono tre.

Proviamo ad analizzarli, prendendo in considerazione anche l’attrezzatura della mia Officina Briù, il mio birrificio casalingo.

Alto tenore alcolico.

Fare birre ad alto tenore alcolico con la mia pentola All-In-One è un impresa abbastanza ardua. Fortunatamente non sono amante di birre forti e le produco molto raramente, e quando lo faccio mi accontento molto volentieri di una 10ina di litri e poco più di prodotto finito, da imbottigliare e tenere a riposo in cantina magari per almeno 2-3 mesi per poi tentare i primi timidi assaggi direttamente l’anno venturo.
Produrre birre ad alta OG ha la sconveniente necessità di rivedere a ribasso l’efficienza dell’impianto, se si vuole usare solo grani. Nella stesura della ricetta, anche io ho preferito abbassare l’efficienza: non di tanto perché mi sono aiutato con dell’estratto secco aggiunto durante la bollitura per aumentare facilmente la densità iniziale cercando il giusto compromesso tra efficienza di impianto e litri finali. Mi sono poi lasciato andare ad una bollitura lunga e vigorosa per favorire la concentrazione e la caramellizzazione del mosto. Con questo stratagemma son riuscito a stare nell’OG prevista senza sacrificare troppo il resto. La ricetta è più in basso, per cui, niente spoiler per il momento.

Carbonazione bassa.

Un English Barley Wine non ha bisogno di tanta bolla a sostegno della bevuta. Dato il suo alto residuo zuccherino e da altri fattori derivati dalle fasi del processo produttivo non ritengo necessario effettuare un priming molto alto, anzi… potrei addirittura non effettuare priming, ma l’idea di lasciare nel collo di bottiglia una parte di ossigeno a contatto con la birra mi fa sincero orrore. Lo stile in sé ammette la presenza di descrittori tipici della deriva ossidativa, come per esempio sherry, porto, marsala etc… Ma non ritengo opportuno che siano le sole note caratterizzanti della mia birra, e nemmeno voglio lasciare le cose ad una deriva incontrollata. Almeno un po’ vorrei essere io l’artefice del disastro. Per cui, mi limiterò ad effettuare un priming basso da 1gr di zucchero bianco per litro, giusto per saturare nel più breve tempo possibile, si spera, di CO2 le bottiglie. Il lungo tempo di maturazione, in teoria, dovrebbe fare il resto. Vedremo… sono qui per questo.

Lunghi periodi di maturazione in botte.

Un buon Barley Wine può maturare in botte per periodi lunghi, anche anni prima di essere gustato. Un momento… io devo aspettare 2 anni per bere la mia birra fatta in casa?!? Ma stiamo scherzando? Ma non ci penso proprio! L’idea di mettermi a fare l’angelo custode che veglia sopra le bottiglie… anche no! Non fa per me.

Tutt’al più sono disposto ad aspettare massimo, e sto esagerando, 3 mesi prima di assaggiare. E la botte? A dire la verità, per le English Barley Wine, il nostro amato BJCP non cita espressamente l’elevazione in botte, ma è ormai prassi comune tra noi beergeek associare queste birre ad un passaggio in botte per creare e sviluppare sentori, colori e sapori e complessità affini. Potremmo barare con delle chips, scaglie di legno trattate da lasciare a contatto con la birra per tempi più o meno corti. E dire che in cantina ho anche delle scaglie a disposizione. Ma ho deliberatamente deciso di non usare niente per questa mia versione di birra: è la prima volta che provo a fare un Barley Wine, appunto, e voglio ridurre il più possibile la quantità di variabili in gioco per sviscerare e debuggare al meglio la birra. Nel caso mi dovessi ritenere soddisfatto, posso aggiungere altri fattori come per esempio le chips tostate. O magari una botte. A tal proposito…

…Avrò mai una botte?

Uno dei tanti sogni erotici di noi homebrewer è quello di riempirsi la cantina di botticelle, caratelli, e creare lo spazio per una piccola bottaia con birre da dimenticare e da invecchiare.

Ecco… niente in contrario con chi lo fa, io non sono quel tipo di homebrewer! Il mio obiettivo principale quando faccio una birra è da sempre tracciare la strada più breve possibile tra la cotta e il bicchiere. L’idea di dover basare le cotte delle mie birre con un occhio di riguardo speciale per la tutela e la manutenzione delle botti mi ucciderebbe; e la gestione del legno è un altro hobby quasi a tempo pieno. Io ho deciso di fare l’homebrewer, e non ho deciso di lasciar andare libere ed incontrollate le mie paranoie in giro per il mondo fuori e dentro la mia testa: voglio che le mie paranoie vengano stoccate in bottiglie, comodi fermentatori o fustini inox, e qualche volta, in via del tutto eccezionale, anche la plastica. Poi per carità… a cambiare idea si fa sempre in tempo.

Un paio di anni fa non avrei mai immaginato di possedere bombole di CO2 e fustini, mentre adesso sono diventate parte integrante della mia attrezzatura. Capace che tra 5 anni sarò pieno di botti sparse per il mondo come le mie paranoie… ma allo stato attuale, nelle mie condizioni attuali… la vedo molto dura. Tutto ha bisogno del suo tempo, e principalmente del suo spazio. Che io non ho.

Ma veniamo a noi e diamo un occhio alla ricetta del Barely Wine, il mio quasi Barley Wine

Briù JAVA – English Barely Wine edition

Ecco i dati principali della mia ricetta, così come recuperato da BrewFather (notare che ora il programma è tradotto in italiano… e che certi termini mi risuonano come unghie sulla lavagna).

Dati Vitali

Ammostamento

Malti (4.35 kg)

Altro (1.3 kg)

Luppoli (50 g)

Varie

Lievito

Fermentazione

Ho cercato di rimanere il più possibile in Inghilterra, sia con i malti e luppoli, sia con il lievito. Ho diviso i malti base con un 50% di Vienna perché non avevo Pale a sufficienza: per certi versi i due malti hanno caratteristiche molto simili. Il luppolo Columbus in amaro è, diciamo, un modo carino per non sbagliare, sperando di smorzare il dolcione in bocca. Grande novità è invece il lievito usato: ho sentito parlare molto bene del London ESB della Lallemand e ho deciso di provarlo per la prima volta. Ultimamente mi stanno incuriosendo i lieviti della Lallemand, motivo per cui credo che comincerò ad alternarli agli ormai arcinoti lieviti della Fermentis. Ma questa è un’altra storia.

Com’è andata la cotta

Ho fatto la cotta come al solito di sera, cominciando intorno alle 20:00. Il giorno della cotta è casualmente coinciso con il lancio di Mash Out! Podcast, il nuovo podcast co-condotto insieme a Frank di Brewing Bad. Il format è molto semplice: parliamo di homebrewing a 360° cercando di alternarci nelle tematiche e nella conduzione. Lui è quello bravo e precisino, io sono quello che parla a 300 parole al minuto (per lo più incomprensibili). A seguito dell’uscita del teaser il telefono è stato letteralmente intasato dalle continue notifiche di messaggi di amici e colleghi homebrewer che ci hanno scritto per dare un feedback a caldo, e anche se ho provato a stare dietro tutti i commenti, messaggi e like vari, a sera l‘unica cosa di cui avevo veramente bisogno era di disconnettere il cervello dai social e dedicarmi alla cotta. Altro che isolamento volontario… niente batte l’homebrewing! Per cui mestolo alla mano, luce fioca, tanto andirivieni nella cantia… e si procede col pilota automatico per tutte le fasi della cotta.

La versione originale della ricetta prevedeva una bollitura di 120 minuti per ottenere circa 10 litri in fermentazione, ma all’ultimo ho deciso di ridurre il tempo a 90° e di aumentare la dose di estratto secco, perché cominciavo ad essere molto stanco e ad avere sonno. In questo modo sono riuscito a mettere nel fustino circa 13 litri. E forse forse con un paio di litri potrei provare a farci qualche altra cosa… ma non anticipo nulla.

Ho poi spostato tutto nel fustino, dove verrà condotta tutta la fermentazione e inoculato il lievito. Finite le pulizie, a notte fonda e con la schiena a pezzi, son finalmente andato a dormire. Riprendendo il telefono in mano ho trovato una marea di notifiche: ho spento il telefono e ho rimandato tutto alla mattina.

Come dicevo, ho sentito parlare molto bene del lievito London ESB della Lallemand, soprattutto per la sua alta tolleranza all’alcool, addirittura fino ai 12% ABV. Non ha una forte attenuazione, ma a sole 10 ore dall’inoculo la fermentazione in corso è stata letteralmente esplosiva.

goodnight my darling, goodnight my love

Ho deciso di far cominciare la fermentazione intorno ai 18 gradi, per poi aumentare di un grado ogni 2 giorni. Sulla carta questo lievito può condurre gran parte della fermentazione in soli 3 giorni: la mia idea è stata di fare rampe di un grado ogni 2 giorni solo per arrivare ad avere una completa attenuazione nel giro di 7-8 giorni. Al momento che scrivo questo post, la birra sta già a 20°. Altri 4-5 giorni a 22°, dopodiché un breve cold crash di due giorni, e poi via in bottiglia. Con ArdPressure, ovviamente.

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