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Birrette Sour Prêt-à-Porter

20 Luglio 2021 - il Blog, Ricette
Birrette Sour Prêt-à-Porter

Siccome nello scorso articolo ho parlato del lievito Philly Sour della Lallemand, mi sembra giusto e doveroso riprendere l’argomento con dimostrazioni pratiche di come ho utilizzato questo lievito. Per ben quattro volte, anzi tre.

Tutto questo dopo la… sigla!!!

(prossimamente al cinema)

…Ovviamente non c’è una sigla ma ho sempre sognato di poterlo dire!

Facciamo un attimo un piccolo passo indietro, necessario per contestualizzare un po’ il titolo del post.

Cosa sono le birre sour Prêt-à-Porter?

Comincio subito col dire, giocando a carte scoperte, che si tratta di una mia definizione: non si trova in giro e non so nemmeno se è già stata detta o condivisa da altri, e se qualcuno si ritrova in questo mio intricato discorso.

Per me una birra sour Prêt-à-Porter svolge il suo ruolo principale quando è pensata, realizzata e soprattutto bevuta nel giro di poco tempo. Una birra senza pretese, poco strutturata, quasi monocorde ma al tempo stesso piacevole, pulita e senza difetti e per niente memorabile se non per il suo momento storico. Una birra buona, non eccezionale, con quel tocco di stravaganza che ehy… questo proprio non me lo aspettavo.

Credo di aver trovato finalmente una definizione per gran parte delle mie produzioni casalinghe… oltre birrette demmerda™.

Philly Sour e Birra fatta in casa: quattro ricette, anzi tre.

A settembre dell’anno scorso, ho avuto la fortuna e il piacere di arrivare tredicesimo, su cento e passa birre iscritte, al concorso Wide Open 2020 organizzato da Brasseria Veneta, e come premio mi sono portato a casa ben 4 bustine del lievito Philly Sour della Lallemand. Mai premio, oggettivamente, fu più gradito, dal momento che già ci avevo messo gli occhi sopra e volevo comprarlo ed averlo a tutti i costi, ma in quel periodo i vari store italiani non ne avevano disponibilità in catalogo, dal momento che andò letteralmente a ruba… e io mi sono svegliato tardi, come al solito.

Avere quattro bustine quindi mi ha fatto davvero sognare. Le ipotesi immediate sul cosa farci essenzialmente sono state due: o vendere le bustine a carissimo prezzo al mercato nero dell’homebrewing; oppure provare diverse birre, meglio se concatenate per imparare a conoscere bene le peculiarità organolettiche… o organolAttiche. E siccome il mio essere napoletano inside sta lentamente svanendo… ho optato per la seconda: ho approfittato dei primi mesi dell’anno 2021 per darmi da fare con delle produzioni con un grande fattore comune: l’uso dello stesso lievito.

Subito dopo aver archiviato la PASTRiYera Stout, che per inciso è venuta molto buona assai, ho deciso di lasciarmi andare ancora alla sperimentazione provando ad utilizzare il lievito Philly Sour della Lallemand per almeno quattro cotte, cioè tre.

Molte sono state le idee in testa.
Sul punto di partenza non ho avuto dubbio alcuno: niente di meglio di una bella SMaSH demmerda™: pilsner e citra per capire bene ed imprimere nella mente il profilo organolettico del lievito… o organolAttico;

Essendo rimasto oggettivamente soddisfatto degli assaggi del primo esperimento, ho osato produrre lo stile che sicuramente balza più in mente quando si parla di produzioni sour in casa, tra le più semplici e diffuse, ovvero una bella Berliner Weisse demmerda™ aromatizzata alla menta Pennyroyal, o Menta Poleggio, inviatami da Luca Fusé, il fratello maggiore che ogni homebrewer dovrebbe avere. Anche in questo caso ho delegato al Philly Sour tutta la fase della fermentazione;

Come terza cotta, ho messo in cantiere la mia bella gruit ale demmerda™, riproponendo la stessa versione fatta l’anno scorso, quindi sì… le patate nella birra sono tornate, ma con piccole modifiche sulla gestione della temperatura e, ovviamente, del lievito. In questo caso ho provato ad usare due lieviti per gestire la fermentazione.

Di seguito ecco le tre belle ricette demmerda™. Ho cercato di schematizzare il più possibile tutte le informazioni necessarie per avere a colpo d’occhio un riferimento e capire cosa è stato fatto.

Ma ecco un po’ di info aggiuntive per ogni birra, per chi come me vuole saperne sempre di più.

Briù Dot Net 2021 – SMaSH Sour IPA

la fiera del tropicale

La ricetta in sé è molto semplice e difficile da sbagliare. Su questo aspetto c’è poco da dire, infatti la cotta è andata via liscia come l’olio. Dopo circa 30 minuti dall’inizio dell’ammostamento ho notato il mosto in ricircolo molto pulito e per curiosità ho effettuato il test dello iodio dopo anni che non lo facevo: accertatomi dell’avvenuta conversione ho aspettato giusto 5 minuti e poi ho estratto il pipe per andare in bollitura, che è filata via senza intoppi fino all’inoculo del lievito. Stolto ed ingenuo, io, ho impostato solo 7 giorni a 25°c come profilo di fermentazione, ma mi sono subito reso conto che il lievito Philly Sour è molto lento e fatica sia a partire che ad arrivare a termine. Purtroppo, lo ammetto, mi hanno abituato male tutti questi anni di lieviti che in 5 giorni completano sia fase tumultuosa che attenuazione. Ma senza troppi indugi, ho atteso, ed atteso ed atteso ancora. E solo quando ho visto il mio sistema nervoso particolarmente provato da questa attesa, e nessuna variazione della densità nell’arco di giorni, sono andato in cold crash per circa una settimana e imbottigliato in contropressione.

Ho effettuato anche un dry hopping a partire dal 2-3 giorno di fermentazione, per dare spazio alla biotrasformazione, e ho lasciato il luppolo in pellet in contatto col mosto per tutto il tempo. Ogni tanto andavo a smuovere il fustino che uso come fermentatore per rimettere in circolo i lievito e il luppolo come se fosse un rimontaggio, processo tipico nella produzione enologica. L’abbattimento della temperatura poi ha consentito il deposito sul fondo e la birra finale è risultata molto pulita.

Per la prima volta ho deciso di usare in bottiglia il lievito F2 della Fermentis, lievito da rifermentazione, perché ho come l’impressione che il Philly Sour sia arrivato provato oltremodo e assolutamente non in grado di carbonare adeguatamente la birra in tempi decenti. Tanto vale quindi dare “l’aiutino”.

Dopo una settimanella la birra era già pronta da bere. Dopo aver mandato qualche campione in giro a colleghi homebrewer, la birra è finita in pochi attimi. Birra carina, elegante, piacevole, dissetante. Una birretta sour Prêt-à-Porter dal modesto valore di 5 stelle su 5.

Briù Basic 2021 – Berliner Weisse alla menta

“…Oggi come oggi se non fai una berliner weisse sei uno stronzo“, dicevo anni fa su CarBrewing. Ed effettivamente lo credo ancora. L’affermarsi della tecnica famosa come kettle sour ha reso molto mainstream questo stile, che diciamocelo, è un processo che assicura molto spesso risultati più che decenti: per un periodo tutti, ma proprio tutti, hanno realizzato birre a bassa gradazione alcolica con l’aiuto di batteri lattici e con aggiunta di frutta varia. Si trovavano dappertutto, alla spina, in classifica nei concorsi, alle grigliate… dappertutto.

Io, da vero hipster quale sono, non solo me ne sono sempre guardato bene dal farne una, ma ho sempre criticato chi le faceva, ma mentre me ne stavo appoggiato nelle retrovie, in sordina.

Il motivo è semplice: fondamentalmente il kettle sour ha rotto il cazzo. Questo non vuol dire che la tecnica in sé non sia valida, ma ha fatto venire a noia Berliner Weisse, Lichtenhainer e Gose. Tutte uguali, e tutte le stesse e soprattutto dappertutto in un tutte le declinazioni possibili ed immaginabili. Con frutta senza frutta, affumicate, lisce, a bassa gradazione, ad alta, maturate in botte, col sale di Cervia, col sale dell’Himalaya… insomma che due coglioni!

E infatti ho fatto una Berliner Weisse.
Con il Philly Sour.
Aromatizzata alla menta.

Eh già… se non ci mettevo una cafonata delle mie in mezzo non ero contento.

Il grist è molto classico: 50% malto pilsner e 50% frumento maltato e una luppolatura molto bassa tutta in amaro, percepibile più in bocca che al naso. Scorrevole, dissetante, leggermente sapida, dall’acidità contenuta e dalle discrete note yogurtose e tropicali. E con dosi cafone di menta poleggio in hop stand che la metà bastava. Ma no! Noi hipster siamo così. Appena scema un po’ l’hype, riportiamo in auge il passato mascherandolo di modernità in maniera del tutto esagerata e sconsiderata.

Anche questa cotta è andata col pilota automatico, e anche in questo caso ho usato il Philly Sour in solitaria. E anche in questo caso ho dovuto aspettare ere geologiche per arrivare a fine attenuazione. Dopo un lungo periodo di Cold Crash, winterizzazione o lagerizzazione (a seconda di come la si vede) ho imbottigliato in contropressione e anche in questo caso ho inoculato F2, l’aiutino in bottiglia. Dopo una settimana, ho effettuato un test per controllare l’avvenuta carbonazione, e ho comincato a berla.

La birra in sé è venuta caruccia. Limpida, bella schiuma, parecchio carbonata e con la menta che prende a schiaffi tutti i ricettori nasali e le papille gustative come nemmeno Bud Spencer e Terence Hill nel loro tempo d’oro sapevano fare.

A me dopo già la seconda terza bottiglia aveva stufato, ma chi l’ha assaggiata l’ha trovata decisamente invitante e interessante: birra e menta non è un accostamento inedito, ma di solito mi è capitato in birre scure. In questo caso mi piaceva l’idea dell’acidità mentolata, e tutto sommato penso che come esperimento sia abbastanza riuscito. Anche in questo caso, siamo di fronte ad una birretta sour Prêt-à-Porter dal modesto valore di 5 stelle su 5.

Briù HTML 2021 – gruit ale con patate, menta, salvia e rosmarino

malto e patate

Ebbene sì… siamo in quel periodo dell’anno.

Parlando con amici che ne sanno, spesso è venuta fuori la mia abitudine del tutto malsana di fare birre buone, ma non assolutamente classificabili nei range stretti di uno stile. Il che da un lato è più un punto a sfavore che altro.

Non è un caso se a me piace produrre in casa, e penso anche di riuscire bene, stili con maglie di interpretazione talmente tanto larghe e lasche che è faticoso provare a fare dei confronti tra birre della stessa, diciamo, famiglia.

Il motivo è molto semplice: se voglio una birra in stile, la compro: faccio prima. In casa mi limiterei solo ad essere un mero interprete di qualcosa che è stato già sviscerato, analizzato, ponderato in mille altri luoghi e molto meglio di me.

Una volta che si è compreso e addomesticato il processo produttivo con esperienza e studio, possono essere prodotti in casa (quasi) tutti gli stili del mondo. Ci sono ovviamente delle eccezioni e variazioni sull’attrezzatura, ma in linea di massima… si tratta di quello: Attrezzatura idonea ed esperienza.

Nulla contro chi invece ne fa dell’attinenza allo stile una personale battaglia, ma questo essere pedissequo e allineato ai paletti, a me annoia da morire. Posso fare al massimo un paio di cotte “in stile”, ma poi sento il bisogno di “uscire fuori”.

La Gruit Ale che faccio da tre anni a questa parte è un esempio lampante di come mi piace sondare il terreno per creare e perfezionare delle birre (anche se in questo caso non è corretto) a mia immagine e somiglianza.

Il problema principale in questo caso è valutare oggettivamente la bontà di una birra, al netto di difetti o errori di produzione, perché non esistono termini di paragone stretti. Puoi prendere 10, 100, 1000 Gruit Ale e molto probabilmente se ne assomiglieranno in poche. Mentre se si prendono 10, 100, 1000 esempi di Ordinary Bitter (per dire il primo stile BJCP che mi è venuto in mente) ecco che i numeri di birre con versioni con tratti comuni aumenta in maniera esponenziale.

E come si valuta la bontà? È molto difficile. Non avendo parametri precisi per EBC, ABV, e di IBU nemmeno a parlarne in questo caso, su quali parametri possiamo fare riferimento in assoluto? Probabilmente l’unico che rimane a disposizione: il bevitore.

Se più bevitori considerano “equilibrata” una gruit ale, che, ripeto, non ha canoni di riferimento precisi, è possibile affermare, con ragionevolezza, che l’esperimento è riuscito? Secondo me sì.

Ma andiamo un po’ oltre la produzione e basta. Perché mi accanisco nel fare ogni anno, da tre anni a questa parte, questa Gruit Ale? L’idea di fondo è di fare una birra che abbia ingredienti “poveri” e di facile reperibilità. In giardino sotto casa riesco facilmente a recuperare salvia, menta e rosmarino. E dove non arriva il giardino sotto casa, ci arriva facilmente il supermercato.

Un paio di giorni prima della cotta ho congelato circa 1,5kg di patate a pasta gialla, comprate per pochi euro alla COOP, tagliate a dadi di circa 1 centimetro. Il congelamento agevola la rottura delle catene degli amidi presenti nel tubero e ne favorisce la conversione grazie agli enzimi del malto base. Inutile dire che le patate vanno scongelate prima di essere messe in ammostamento, e siccome i tuberi ossidano in fretta, è meglio considerare bene i tempi, o mettere in ammostamento le patate quando sono ancora ancora non del tutto scongelate. ci penserà poi la nostra pentola a ripristinare e mantenere la temperatura target. Gli amidi delle patate vengono convertiti in zuccheri a 72°C più o meno nel giro di una mezz’ora, in maniera molto simile ai tempi di conversione di un malto base. Motivo per cui ho eseguito un mash monostep tutto sbilanciato sulle alfa amilasi per soli 30 minuti. A fine mash il mosto era molto limpido, e non ho avuto problemi di filtrazione.

Dal momento che l’amaricatura di questa Gruit Ale è stata affidata al rosmarino, ho accorciato i tempi dai canonici 60 a 30 minuti, con bollitura vigorosa, e in Hop Stand ad 80° ho messo salvia e menta, per cercare di trattenere il più possibile gli aromi all’interno del mosto, e poi perchè la sosta in hop stand corrisponde alle temperature tipiche usate per creare infusi di erbe. A temperatura maggiore, oltre ad avere gusti diversi, tutti i profumi svaniscono in fretta.

In buona sostanza, una cotta molto veloce da realizzare. Almeno un’ora in meno rispetto al solito.

Ho quindi inoculato il lievito Philly Sour e ho atteso circa 4 giorni. Dopo essermi accertato che la fermentazione fosse partita, ho inoculato il secondo lievito, il WB-06 della Fermentis e mantenuto la temperatura di fermentazione sempre sui 25°C. Dopo 5-6 giorni dal secondo inoculo, la misura della densità aveva decretato la fine dei giochi. Anche in questo caso, breve sosta a 2°c utile per la chiarificazione del mosto e imbottigliamento in contropressione (e anche qui, aiutino di F2).

Adesso che scrivo sono passati circa quattr mesi dall’imbottigliamento In questi mesi ho effettuato diversi assaggi e sto monitorando l’evoluzione. Ho trovato amici che hanno gradito molto, altri che son rimasti un po’ spiazzati, ma in genere hanno tutti apprezzato l’equilibrio della nota acida molto contenuta e la caratterizzazione delle erbe usate. Il rosmarino ha donato un amaro molto gentile, che svanisce presto per dare spazio alla salvia e alla menta. Sta di fatto, che a me, per quanto possa considerare l’esperimento in linea con le aspettative, non ha fatto impazzire più di tanto. Una sour Gruit Ale Prêt-à-Porter dal modesto valore di 4 stelle su 5.

Manca una birra all’appello

Se le bustine di Philly Sour in mio possesso sono 4, perché ho fatto solo tre birre?

Le intenzioni di fare quattro birre c’erano tutte. L’idea era di mettere in mezzo, tra Berliner e Gruit, una Gose ma ho preferito non farla perché, diciamocelo, questo lievito mi ha già rotto le palle.

Oggettivamente non lo trovo tutto questo interessante. È sicuramente un lievito pratico, ma interessante no. Le birre sour che ho prodotto tendono ad essere molto monocorde, appunto prêt-à-porter. Te le bevi, ci mangi sopra, ci chiacchieri sopra, oppure te la sorseggi sovrappensiero. Puoi anche arrivare a prenderne due. Ma poi basta.

È pur vero che facendo pochi litri la birra si riesce a consumare nel giro di poco tempo, ma se devo fare una birra, anche se oggettivmente ben riuscita, per poi solo regalarla… allora faccio altro. Non so se mi spiego.

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